Re Artù e la Masnada di Hellequin

Re Artù e gli spiriti itineranti

Quando l’uomo medievale si accostava a un crocicchio, era conscio del fatto di trovarsi in un luogo pericoloso. Nella concezione medievale i morti erano posizionati geograficamente in maniera precisa, collocati in luoghi remoti ma accessibili. Ogni tanto infatti, i morti e i vivi potevano incontrarsi, proprio ai crocicchi. Incontro prodigioso eccezionale è quello vissuto da un prete di nome Walchelin, nel 1091. Egli incontrò la masnada di Hellequin, un esercito itinerante di anime penitenti che con il suo errare terrorizzava i passanti. La storia di Walchelin viene narrata da Orderico Vitale nell’Historia ecclesiasticae libri XIII. Il suo resoconto è il primo di una lunghissima e fortunata tradizione: l’esercito furioso di anime errabonde che attraversava le campagne in alcune specifiche notti dell’anno si moltiplicherà nelle cronache basso medievali. A capo dell’esercito si immaginava Hellequin (o Herla), mitico re bretone che spesso verrà sovrapposto e confuso con un altro sovrano del mito: re Artù.

Masnada di Artù

L’origine della masnada

L’esercito furioso (come è detta la masnada) è considerato estremamente antico. La sua origine potrebbe essere ascrivibile ad antiche funzioni dei popoli indoeuropei. Troviamo citazioni di eserciti fantastici anche ne la Germania di Tacito. Qui vengono citati gli Harii, i cacciatori che si aggiravano di notte nei boschi tramutandosi in spiriti inarrestabili.
La storia di chi fosse in realtà Herla e di come fosse finito al comando dell’esercito dei morti, viene narrata in un brano di Walter Map. Secondo l’autore, Herla era un re Bretone che incontrò un altro re, il quale aveva le sembianze del dio greco Pan e cavalcava su un’enorme capra. L’essere, ‘re dei pigmei’, ovvero dei nani, propone al re Herla un accordo. Herla deve invitarlo al suo imminente matrimonio con la figlia del re di Francia e lui l’ospiterà a sua volta alle proprie nozze, l’anno seguente. Il bretone accetta, e il giorno del matrimonio vede giungere l’essere caprino con la sua schiera di servitori. Essi portano moltissimi doni e la servitù del re pigmeo si sostituisce a quella di Herla. Fra i doni e la disponibilità dei pigmei, l’ospitalità del re appare appannata. L’anno seguente il satiro invita Herla al suo matrimonio, che si svolge all’interno di una radura misteriosa, sotto una rupe, in un palazzo bellissimo. Alla fine dei festeggiamenti Herla viene congedato con un’altra marea di doni; fra questi un cane da caccia che il re pigmeo gli pone direttamente fra le braccia, avvertendo che nessuno della sua schiera sarebbe dovuto scendere dalla propria cavalcatura finché il cane non fosse sceso di sua sponte da cavallo. Usciti dalla radura, Herla scopre che i festeggiamenti, per lui durati qualche giorno, si erano invece protratti per duecento anni, tanto che ormai erano i sassoni, e non più i bretoni, a governare sulle sue terre, e tutte le persone a lui care erano morte. Scoprì anche che scendendo da cavallo, chiunque del suo gruppo sarebbe morto all’istante tramutandosi in polvere, anche perché il cane a lui donato non sembrava avere alcuna intenzione di scendere.
Il testo di Walter Map propone un viaggio all’interno di una radura che sa d’incanto, alla visita di un essere misterioso e magico, fin dentro ad un castello da favola, in una grotta, che non è altro che l’Aldilà. Il peccato per il quale Herla e la sua schiera devono vagare “senza riposo né arresto”, è imposto dal patto fatto con il pigmeo, che in realtà è il re dei morti. Quella imposta ad Herla è una lezione su come non possa esistere uno scambio fra i viventi e quelli che stanno nell’Oltretomba, se non pagando un caro prezzo. Esiste un evidente squilibrio fra i doni che Herla porta al matrimonio del Pigmeo, e tutti i regali che quest’ultimo fa di ricambio: è uno scambio impossibile quello fra le due realtà, da evitare assolutamente. Mosaico di ArtùWalter Map continua dicendo che la masnada è stata vista spesso nella piccola Bretagna e che questi incontri l’avevano resa famosa in quelle zone. Ben presto, sarà Artù a prendere l’epiteto di “re dei morti”. Impossibile a questo proposito non notare come nella Cattedrale di Otranto, Artù è raffigurato in un antichissimo mosaico a cavallo di un’enorme capra, proprio come il re dei Pigmei.

Herla o Artù?

Esiste un altro motivo letterario, diverso rispetto a quello della masnada, che sposta la nostra attenzione sul monte Etna. Infatti, il re dei cicli letterari con al centro il regno di Camelot, fu spesso sovrapposto alla figura di Herla, diventandone una sorta di erede. Secondo Goffredo di Monmouth, Morgana aveva trasportato re Artù mortalmente ferito sulla misteriosa isola di Avalon. Questo luogo rappresenta simbolicamente un paradiso terrestre e infatti l’autore racconta come proprio lì Artù avrebbe potuto curare le sue ferite e vivere una sorta di segregazione eterna. Secondo alcune fonti favolistiche medievali, invece, Artù sarebbe stato portato nel cuore dell’Etna, che è anche comunemente considerato l’ingresso dell’Oltretomba. Gervasio da Tilbury ne scrive al riguardo nel suo Otia imperialia, e ci narra di come uno stalliere, per inseguire un cavallo fuggiasco si addentrò nel cavo dell’Etna fino a giungere ad una radura spaziosa e piena di delizie. Lì trovò in un enorme palazzo il famigerato Artù, adagiato su un letto regale. Questi restituì il cavallo al garzone e lo informò di come fosse costretto a rimanere dentro quel monte, poiché ogni notte le sue ferite di guerra si riaprivano, per chiudersi nuovamente durante il giorno. Così il garzone venne fatto tornare a casa, e il suo padrone venne premiato con molti regali da parte di ArtùIn questo racconto il leggendario sovrano è una sorta di custode dell’Oltretomba: egli attende in un palazzo splendente, in un luogo fatato posto al centro di una montagna (anzi, di un vulcano) imponente. Ma Gervasio si ricorda di aggiungere un particolare che rende ancora più interessante questa storia: anche nella Piccola e Grande Bretagna, dice l’autore, i guardacaccia sostengono di vedere spesso spiriti a caccia con cani e corni, che appartengono alla “masnada di Artù”. Com’è evidente, abbiamo una netta sovrapposizione fra la figura di Herla e quella di Artù,  che ci viene presentato come re degli Inferi o come il guardiano di qualcosa di sovrannaturale e magico. Questo racconto favoloso fece da modello per diversi scrittori, che da qui attinsero rendendo piuttosto nota questa storia. Anche Cesario di Heisterbach, teologo e predicatore tedesco, ne parla. Cesario racconta un episodio dall’incipit praticamente identico a quello narrato da Gervasio: perso un cavallo di un decano, un servo dovette inseguirlo fino a giungere di fronte ad un vecchio che gli disse che sapeva dove si trovava il cavallo, ovvero sul monte Gyber, custodito dal suo padrone; re Artù. Il servo portò un messaggio al decano: per riavere ciò che era suo, doveva recarsi alla corte di Artù (nel cuore del vulcano) dopo quattordici giorni. Il decano però si burlò di quel messaggio e quattordici giorni dopo, non presentandosi all’appuntamento, si ammalò e morì. Queste due storie sicuramente provengono da una fonte comune. A chiudere la triade c’è un racconto ancora posteriore a Cesario, dove Artù prende definitivamente le sembianze del re dei morti: a narrarcelo è Stefano di Bourbon, e ancora una volta ci troviamo con un servo alla ricerca del cavallo del padrone, su un vulcano “ove si crede sia il purgatorio”, presso Catania. Anche questo servo incontrò un anziano che diede lui alcune indicazioni: andando sul vulcano, alla corte del principe che lì dimorava, avrebbe sicuramente avuto notizie del cavallo. Tuttavia fu ammonito di non mangiare assolutamente nulla di quello che gli sarebbe stato offerto in quel luogo. Già questo incipit è interessante: il divieto di mangiare qualcosa proveniente dal regno dei morti è un topos narrativo diffusissimo, tanto che ne troviamo esempi anche nel mito greco. Proseguendo, il servo trovò nel cuore del monte un’intera città gremita di gente, e incontrò il re nel suo palazzo, rifiutando con attenzione tutto il cibo che gli veniva offerto. Artù gli mostrò quattro letti: uno di questi era destinato al padrone del servo, gli altri ad altrettanti usurai, che avrebbero dovuto presentarsi alla corte in un dato giorno: se non fossero venuti ne avrebbero pagato le conseguenze. Come simbolo dell’accordo, il re affidò al servo un boccale d’oro, con un coperchio, vietandogli severamente di aprirlo e dicendogli che il suo padrone avrebbe dovuto bere da esso. Quando il padrone aprì la coppa ne uscì una colonna di fuoco, prontamente gettata in mare per evitare ferite: inoltre il giorno prestabilito il signore e tre usurai, che non si erano presentati all’appuntamento, vennero rapiti da quattro cavalli neri e portati via. La coppa da cui esce fuoco sarebbe una rappresentazione del vulcano, così come i quattro letti, i quattro cavalli rapitori e i tre usurai richiamati insieme al padrone, renderebbero la città di Artù una città infernale. Questo Artù è un diavolo, se non Satana stesso, alter ego del capo della masnada, Herla. Stefano di Bourbon, in un’altra sua opera, ci parla di demoni che vanno a caccia e vengono detti “masnada di Allquinus o di Artù”.
La sovrapposizione fra i due re mitici è evidente; entrambi sono bretoni, entrambi sono antichi eroi, entrambi cacciano con un esercito furioso. Il motivo della caccia si va via, via, sostituendo a quello del semplice errare che aveva contraddistinto le prime fonti: ma i cacciatori furiosi sono un motivo più antico e il loro ritorno con forza si rifà soprattutto all’esplosione di fonti provenienti dalle isole britanniche, dove da molto tempo questo tema faceva parte del folklore.

Trasformazioni della caccia selvaggia

Intorno al XVII secolo Hellequin scomparirà definitivamente, lasciando il posto alla nota maschera di Arlecchino; un ulteriore cambio di senso, che non permette più di evocare il glorioso re dei morti e il suo girovagare nelle notti magiche dell’anno, bensì mette in luce unicamente un lato burlesco, furbo, completamente diverso rispetto a quello incarnato in precedenza. Questo passaggio, invero abbastanza misterioso, si avrà con la mediazione di un’altra figura, questa volta di origine dantesca: Alichino è infatti il nome di uno dei diavoli capeggiati da Malacoda nel XXI canto dell’Inferno, il quale sembra essere l’antenato più prossimo della maschera. Esistono sfumature della masnada che hanno continuato a generare terrore nella cultura popolare. L’esercito si è trasformato definitivamente in un corteo di caccia. La wilde Jagd (o wütendes Heer-‘caccia selvaggia’), rimane un tema presente nel folklore germanico, e mutando nuovamente nei connotati, anche nel folklore italiano. Nelle zone centro settentrionali d’Europa, la caccia selvaggia è descritta come la cavalcata di goblin, elfi e fate, spiriti degli alberi e della natura, spiriti dei morti in modo violento (soprattutto impiccati), bambini non battezzati. Insomma, una nutrita schiera di creature appartenente al folklore di quelle zone si riunisce per la caccia. Non è più il mitico re Herla a guidare questa battuta, ma diverse figure di grande rilievo: nella zona del Galles abbiamo Gwyn ap Nudd, sovrano del popolo fatato e dell’Oltretomba, sempre in area anglosassone il mitico Woden, oppure il suo corrispettivo Odino, più a Nord. Esistono addirittura tradizioni che fanno guidare il corteo a Caino o al Diavolo stesso. Per moltissimo tempo la caccia selvaggia è stata sovrapposta al volo notturno delle streghe verso il sabba. Questa volta a guidare la schiera era però una donna, Diana (o Ecate, sempre sovrapposte) per quanto riguarda l’area mediterranea, o la regina delle fate, oltre la manica e in area germanica. Nella penisola italiana esistono diversi riferimenti a cacciatori notturni che agiscono in gruppo: così troviamo la ‘caccia morta’ o ‘caccia del diavolo’ in Lombardia, il ‘corteo della berta’ in Piemonte o la ‘cazza selvadega’ del Trentino. Lo scopo della caccia sembra essere quello di catturare qualche anima sfortunata, ma la schiera tende anche a rubare pane e burro dalle dispense dei contadini (Trentino).